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Tripoli : L’elogio del vuoto
Il Foglio
2020
Original text in italian
Un graffito del volto di Oscar Niemeyer ci accoglie all’ingresso della fiera Rachid Karame. Iniziato nel 1963, il progetto per Tripoli aveva grandi ambizioni: quelle di una nazione, il Libano, pronta a rendere visibile il suo rinascimento economico e culturale, e quelle di un architetto a cui era stata offerta la possibilità, di reinventare la tipologia della fiera internazionale che egli stesso definiva come “la giustapposizione di padiglioni indipendenti di mediocre qualità architettonica”.
Nelle sue memorie, circa quarant’anni dopo, l’architetto brasiliano pubblica un disegno del 1962 che illustra quella che in seguito diventerà la planimetria del progetto: un edificio “boomerang” lungo 750 metri definisce il limite dei 70 ettari del sito e nello spazio generato dalla concavità della curva, una serie di forme architettoniche sono collegate da giardini e specchi d’acqua.
Tra queste architetture si distinguono il Museo del Libano con la sua struttura quadrata circondata da portici, il teatro sperimentale a forma di cupola, il Museo spaziale e il suo eliporto, il padiglione dei bambini ed il serbatoio dell’acqua sormontato da un ristorante. Nella parte settentrionale, una rampa cerimoniale conduce all’anfiteatro dominato da un arco monumentale, segnale ed icona del sito.
I lavori inziati nel 1967 si interruppero bruscamente dopo otto anni a causa degli eventi che hanno insanguinato il Libano nel 1975. Lo spazio della fiera, mai aperto al publico, è da allora rimasto intatto: a differenza di altri progetti incompiuti, come la torre Murr o il cinema della piazza dei Martiri di Beirut, non vi è alcun segno di proiettili o di altri ordigni che ricordi come questo luogo sia stato trasformato in una base militare durante i quindici anni della guerra.
Oggi il sito è visitabile e non è affatto una rovina, piuttosto un fermo immagine di un momento mai esistito, un decoro di un film che non è stato mai girato e i prati perfettamente curati, i cespugli tagliati in parallelepipedi, rafforzano questa impressione.
L’esperienza è soprendente, innanzitutto perché il sito esce da qualsiasi forma di “normalità” urbana. Non è né una “friche”, né un cantiere, né un sito archeologico. La fiera non ha né funzione né uso. Non rispetta alcuna logica economica o produttiva.
La fiera è semplicemente lì, soggetta alla pressione di tutti gli sviluppi urbani che gravitano attorno ad essa. È uno “spazio inutile” e proprio per questo è diventato in qualche modo uno spazio di resistenza.
In secondo luogo quelli che dovevano essere un teatro, un museo o un eliporto si sono mutati in sculture di grandi dimensioni, forme che si lasciano percorrere dalla luce e dai colori. Come per la “tour des ombres” di Le Corbusier a Chandigarh, queste architetture sono delle esperienze spaziali e climatiche a cielo aperto.
Niemeyer ha d’altronde sempre operato al limite dell’architettura e della scultura: l’auditorium a forma di libro aperto dell’Università di Constantine, la cupola a forma di uovo dello stadio del 5 luglio ad Algeri, i “vulcani” di Le Havre in Francia o il museo disco volante di Rio de Janeiro sono monumenti scolpiti, opere che, trasgredendo la dottrina estetica modernista ortodossa, affermano lo spettacolo, il lusso e il piacere come legittime ricerche architettoniche.
Ma mentre queste esperienze sono talvolta considerate come forme soggette ad un consumismo visivo e di conseguenza all’obsolescenza dell’immagine, per loro natura incompiuta, le sculture della fiera di Tripoli prendono vita in sfumature sorprendenti e sempre nuove.
Il dialogo impossibile tra le geometrie del brasiliano e il quotidiano, tra l’oggetto domestico (sedia, tavolo, frigorifero ecc.) e il volume che lo contiene, lascia il posto a una celebrazione del vuoto, un rito dove il visitatore non consuma ma crea, immagina, ricorda.
Con questo grande vuoto involontario Oscar Niemeyer ha probabilmente lasciato in Medio Oriente la sua migliore opera.
Author
UMBERTO NAPOLITANO
Publication
IL FOGLIO - JANUARY 31ST 2020